WikiLeaks e i miti dell’era informatica

Christian Christensen, del dipartimento di scienze dell’informazione e dei media dell’università svedese di Uppsala, ha recentemente scritto un articolo per Le Monde Diplomatique sulle potenziali trasformazioni del giornalismo, in particolar modo quello cooperativo, legate all’intrigante vicenda di WikiLeaks. Per Christensen questo evento non inaugura una nuova era senza censura, capace di superare le frontiere e in grado di far sparire i media tradizionali. Vediamo perché.

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La pubblicazione da parte del sito internet WikiLeaks.org, il 25 luglio scorso, del «Diario della guerra in Afghanistan» – la quotidianità dell’esercito americano descritta nei rapporti relativi a una quantità considerevole di incidenti – ha conquistato le prime pagine del Guardian, del New York Times e dello Spiegel. La divulgazione di questi dati, commentati dalla stampa del mondo intero, ha suscitato un vasto dibattito sulla crescente potenza dei media partecipativi e del giornalismo informatico. La maggioranza delle discussioni sono influenzate da tre miti dell’era informatica che derivano da una visione deterministica e ingenua della tecnologia.

Primo mito: i media detti «sociali» – il cui contenuto è coprodotto dagli utenti – dispongono di un potere specifico. Ci si è interrogati molto su ciò che questo episodio rivelerebbe a proposito del ruolo dei nuovi media cooperativi, in particolare nella copertura dei conflitti armati. Il problema non è ininfluente, mostra però una confusione sempre più diffusa: quella che porta a mettere nello stesso calderone tutte le forme di media «sociali» (i blog, Twitter, Facebook, YouTube o WikiLeaks). Poiché sfruttano una tecnologia identica, tutti questi supporti formerebbero un insieme omogeneo. Ebbene, a differenza degli altri media cooperativi, WikiLeaks sottomette qualsiasi documento destinato alla pubblicazione a un approfondito processo di verifica. Un dettaglio? Tutt’altro: tale procedimento mette in luce il carattere fantasioso delle illusioni «tecno-utopistiche» secondo le quali noi assisteremmo all’avvento di un «mondo aperto» dove ciascuno opererebbe per diffondere la verità su tutto il pianeta pubblicando ciò che gli sembra buono.

L’influenza di WikiLeaks non dipende dalla tecnologia, ma dalla fiducia che possono avere i suoi lettori sull’autenticità dei documenti che consultano. Su YouTube (una piattaforma che diffonde contenuti inviati dagli internauti), si trovano centinaia di video filmati in Iraq o in Afghanistan che mostrano le forze della coalizione impegnate in atti di aggressione difficili da giustificare, o anche puramente e semplicemente illegali. Tuttavia, nessuno di questi documenti ha avuto un impatto comparabile a un altro della stessa natura pubblicato da WikiLeaks: il massacro di un gruppo di civili – fra cui due giornalisti della Reuters – compiuto da un elicottero da combattimento americano nella periferia di Baghdad. Perché? Perché un’informazione ha valore solo se è verificabile. I media «sociali» non sono dunque tutti uguali nei confronti dell’informazione: sarebbe sbagliato attribuire loro la stessa capacità di influenza.

Secondo mito: lo stato-nazione è in via di sparizione. Gran parte del discorso che glorifica Internet poggia sull’idea che noi viviamo ormai in un mondo privo di frontiere. Secondo Jay Rosen, professore all’università di New York, WikiLeaks costituirebbe addirittura «il primo organo di stampa che sfugge a qualsiasi potere statale». Ebbene, è tutto il contrario. Se l’avvenimento ci insegna qualcosa, è proprio che lo stato-nazione è lontano dall’essere sul punto di scomparire. I responsabili di WikiLeaks l’hanno capito bene. Il sito ha la sua base in Svezia. Per questo motivo beneficia del livello di garanzia eccezionale che la legge svedese offre agli «informatori» in termini di protezione dell’anonimato delle fonti (1).

Ma non è tutto. Se è una società svedese – Prq – che lo ospita, ogni documento inviato al sito passa per server situati in Belgio. Per quale motivo? Perché anch’esso dispone di leggi molto restrittive sulla protezione delle fonti. Infine, il suo fondatore, Julian Assange, ha scelto di presentare il video del massacro di Baghdad, evocato sopra, in Islanda, paese che ha appena promulgato un insieme di leggi – Icelandic Modern Media Initiative – destinate a trasformarlo in un rifugio per gli informatori e il giornalismo investigativo.
Molteplici esempi illustrano il ruolo giocato dagli stati e dalle leggi nazionali nel mondo informatico, dalla recente decisione degli Emirati arabi e dell’Arabia saudita di vietare l’uso della funzione di messaggeria istantanea dei BlackBerry fino all’interdizione di YouTube in Turchia. Se è vero che la struttura di WikiLeaks
è stata pensata in modo da aggirare certe legislazioni nazionali (grazie alla tecnologia informatica), essa è anche destinata ad approfittare delle leggi di altri paesi. Il sito non esiste al di sopra né al di là delle leggi: esso «pesca» nei quadri giuridici che gli sono più favorevoli.

Terzo mito: il giornalismo è morto (o agonizza). «Le notizie riguardanti la mia morte sono molto esagerate» aveva notato lo scrittore americano Mark Twain. Si potrebbe dire altrettanto di questo mestiere. Certo, l’esempio di WikiLeaks mostra che la tecnologia ci costringe a ridefinire, o comunque a precisare, il senso della parola «giornalismo», ma conferma anche il ruolo centrale di questa professione nel diffondere informazioni. Molte settimane prima di mettere online i documenti sulla guerra in Afghanistan, WikiLeaks li ha trasmessi a tre grandi quotidiani di caratura internazionale (The Guardian, The New York Times e Der Spiegel) e non a delle pubblicazioni «alternative». Una decisione saggia, perché, se questi documenti fossero stati messi direttamente online, gli organi di stampa del mondo intero si sarebbero precipitati sulle informazioni, producendo un insieme caotico di analisi sparpagliate e confuse. L’attenzione si è al contrario focalizzata sui tre giornali che avevano avuto il tempo e i mezzi di analizzare e di riassumere i documenti.

È evidente, gli araldi della morte del giornalismo e quelli della scomparsa dello stato-nazione commettono lo stesso errore: confondono evoluzione ed eliminazione. Le circostanze e il successo della diffusione del «Diario della guerra in Afghanistan» mostrano che il giornalismo «tradizionale» non ha perso nulla della sua utilità. Da una ventina d’anni a questa parte sta soltanto cambiando la natura del ruolo che è portato a giocare.

Il mito della sua morte – e quello del trionfo dei media «sociali» – riposa sull’illusione che esisterebbe un legame causale tra informazione e progresso democratico. Ebbene, l’idea che l’accesso a un’informazione «nuda e cruda» sia in sé portatrice di cambiamenti più o meno radicali si rivela altrettanto ingenua di quella che attribuisce lo stesso potere intrinseco alla tecnologia. L’informazione, così come la tecnologia, è utile solo grazie alle conoscenze e alle competenze che permettono di farne un uso adeguato. WikiLeaks non ha scelto tre giornali vicini ideologicamente, ma tre media che disponevano delle risorse organizzative, professionali ed economiche utili a diffondere e rendere accessibili i documenti in questione.

Controcorrente rispetto a tutti i discorsi che presentano l’universo informatico come orizzontale, senza confini e fluido, questo episodio ci ricorda che le strutture, le frontiere e le leggi non hanno perduto nulla della loro
importanza.

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