Giornalisti titubanti, alle prese con il salto nel vuoto dal cartaceo al 2.0: come acquisire le nuove professionalità del mondo dell’informazione? Per il mercato non basta saper maneggiare una videocamera, è necessario rivoluzionare il rapporto scrittore-lettore in chiave partecipativa. Un percorso di transizione, fatto di competenze tecniche ma anche di approccio psicologico, di cui si occupa il Knight Digital Media Center di Berkeley, in California, centro di eccellenza che dal 2000 prepara i cronisti old style a destreggiarsi online attraverso training mirati su social media, tecniche video e nuove strategie per le start up.
Si tratta di veri e propri corsi di sopravvivenza professionale in cui entra in gioco la nuova frontiera, il real-time web: dopo i blog, con cui erano nati i primi tentativi di giornalismo su Internet, l’informazione deve correre su binari più rapidi, vincere in velocità nel mare magnun dei competitor. Quindi arrivano i social media in grado di consentire una fruibilità immediata. Ma come convincere i veterani, tradizionalmente ostili alla transizione dal cartaceo al virtuale, a familiarizzare con la Rete e i suoi strumenti, percepiti come antagonisti acerbi nella risposta alla domanda di informazione? “E’ il tasto più dolente”, spiega Vikki Porter, direttore del Knight Digital Media Center. “Secondo i più, Facebook e Twitter danneggiano l’integrità del contenuto perché impediscono di controllarne la circolazione. Difficile far capire che sono strumenti di produzione ma anche di diffusione e promozione”. Porter ricostruisce le tappe dello shock per i professionisti dei media tradizionali: “All’inizio è stata la domanda dei lettori: informazione 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 e la sfida per soddisfarla. Ad aggravare la situazione il collasso del vecchio modello di business: gli investitori hanno drasticamente tagliato la pubblicità online e sul cartaceo, col risultato di migliaia di licenziamenti”.
Il trend è irreversibile e secondo Philip Meyer, autore di “The vanishing newspaper”, “il primo trimestre del 2043 sarà il momento in cui l’ultimo, esausto lettore getterà via l’ultimo, raggrinzito quotidiano”. “Non credo che la previsione sia corretta”, ribatte Porter. “Ci sarà ed è già in atto una riduzione quantitativa della stampa, meno economica e orientata a target più specifici. Se prima le aziende preferivano fare pubblicità sui giornali, oggi possono risparmiare e promuoversi ‘in casa’ grazie ai social media. E possiamo dire addio ai ricavi di vendita che creavano ampi margini di profitto”. Se si riducono gli investimenti chi ha i mezzi per il giornalismo di qualità? “I nuovi modelli arrivano da associazioni no profit e fondazioni filantropiche come ProPublica, Center for Investigative Reporting e InvestigateWest che distribuiscono poi i contenuti ad agenzie o altri quotidiani”. E diventano i service di chi ha privilegiato le breaking news. Oltre alle competenze tecniche da acquisire, quali sono gli ostacoli psicologici del giornalista 1.0? “Spesso fatica a capire che la narrazione online non è lo storytelling dei media tradizionali perché è integrato dalla conversazione con il lettore, con cui non riesce ancora a confrontarsi. Nell’era dei contenuti on demand via cellulare, il cronista deve diventare un brand inconfondibile per distinguersi nella babele della concorrenza e le sue modalità di interazione diventano parte del marchio”. Sulla diffidenza nei rapporti coi social media, anche in Italia osserviamo che timidamente i quotidiani italiani integrano gli articoli con la possibilità di postarli su Facebook, ad esempio, ma si guardano bene da un rapporto diretto con i lettori. “Twitter è il futuro dell’informazione via mobile”, aggiunge Lanita Pace-Hinton, direttore del multimedia training. “Lì vincono tempismo e rapidità, non la qualità della scrittura o la risoluzione dell’immagine. Facebook è il canale di sperimentazione privilegiato, più consultato della mail e della segreteria telefonica e i quotidiani utilizzano ancora i blog per osservare dove si crea il buzz in Rete, su cosa i lettori fanno passaparola”.
Ma ci sono esempi virtuosi. “Guardian e Daily Telegraph sono modelli di integrazione delle piattaforme online”, puntualizza Porter, “Washington Post e New York Times sono alla testa delle trasformazioni tecnologiche, Usa Today è pioniere nei contenuti mobile. E il Christian Science Monitor batte tutti sul tempo”. Quindi gli esempi da seguire arrivano anche dal Vecchio continente. “In realtà”, conclude il direttore del Knight Center, “storicamente i lettori europei sono sempre stati particolarmente dinamici. E, rispetto agli americani, hanno sviluppato un concetto più complesso di consumo e valutazione del panorama informativo”. Insomma, anche chi è legato al taccuino e al lapis non è condannato a rimanere lost in translation.
di Eleonora Bianchini per il Fatto Quotidiano