Goffredo l’ho visto venerdì scorso in occasione del convegno nazionale del Cnca. Mi ha accolto con un «Ti sei spostato a destra, eh?» e mi ha beffardamente schiaffeggiato. La mia colpa? Abitare a Firenze, la città che subisce Matteo Renzi come sindaco. Poi baci e abbracci, come sempre con grande affetto. E ieri la sorpresa. Questa bella intervista di Simonetta Fiori per Repubblica che mette al centro l’impegno di Goffredo Fofi come fondatore e animatore di riviste. Dagli anni Sessanta fino ad oggi con Lo Straniero.
La rilancio qui sotto perché dà l’occasione, sia pur in estrema sintesi, di conoscere la personalità di Goffredo e la forza con cui si muove tra le emergenze sociali, politiche e pedagogiche che ancora oggi, minoranze delle minoranze, sono vive nel nostro Paese. La pubblico anche perché la lettura dello Straniero – e la preziosa frequentazione del gruppo redazionale – mi ha permesso di comprendere di più la mia azione, spesso confusa e disordinata, ma sempre pronta ad accogliere le persuasioni che la rivista offre con generosità.
Oggi Lo Straniero è arrivato al numero 150 (qui il sommario). Se volete approfondire lo trovate in libreria o sul sito www.lostraniero.net.
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Se ha resistito per quindici anni sempre nella stessa rivista – circostanza davvero singolare – è perché «fuori non succede granché, anzi sono stati gli anni più morti». Lo Straniero festeggia il numero 150, un lungo viaggio tra arte cultura scienza e società che comincia nell’estate del 1997, ma il suo timoniere non sembra dell’umore migliore. O forse sì. La cultura oggi? Una sorta di “oppio del popolo”. La tribù dei lettori? Solo nel nominarla, a Goffredo Fofi viene l’allergia. E i festival, i premi, gli eventi, i reading, i saloni, le fiere? «Un chiacchiericcio inutile. Tutti si sentono bravi e intelligenti solo perché consumano libri, film, idee imposti dall’industria culturale. In realtà siamo riempiti di pensieri che non sono nostri».
Insomma, si sente un reduce?
«Ma per carità. Ho sempre detestato i reduci, anche quando erano personaggi straordinari. Per questo mi ostino a fare lo Straniero, che gode di uno zoccolo duro di abbonati».
Cosa vuol dire fare una rivista oggi?
«Quello che ha sempre significato: interpretare il tempo dal punto di vista di una minoranza esigente e attiva. In qualche modo io ho sempre fatto la stessa rivista, adattandola alle varie stagioni della storia italiana».
Ma cinquant’anni fa era molto di moda, oggi sembra un genere di antiquariato.
«Che vuol dire? Le minoranze esistono sempre. E io grazie a loro riesco a sopravvivere in un paese annegato nella stupidità».
Umor nero.
«La tragedia vera della mia generazione, dei cosiddetti alfabetizzatori, è che ci siamo confrontati con un popolo straordinario quando era analfabeta e che poi – una volta imparato a leggere e scrivere e messi da parte un po’ di soldi – è diventato un popolo di mostri e di servi».
Dovevate lasciarli morire di fame?
«No, era giusto lottare per l’emancipazione, però nel momento in cui i morti di fame hanno avuto la pancia piena si sono rivoltati ai valori di comunità, solidarietà, giustizia sociale per cui erano stati affrancati. Questo popolo che ho amato follemente è diventato tutt’altro che amabile. Se penso a chi è oggi il mio prossimo…».
Chi è il suo prossimo?
«Il mio prossimo è il Trota. È quella la vera sfida di oggi: il recupero dei babbei. Nella categoria dei gonzi includo anche gli analfabeti laureati. Prima avevamo analfabeti autentici, oggi li abbiamo provvisti di diploma. Si drogano di fiere, di libri, di film, di discussioni, di presentazioni, di commemorazioni, di festival. Applaudono freneticamente i nuovi guru mediatici. E si illudono di pensare. Ma è un’illusione».
I guru ci sono sempre stati.
«Ma oggi siamo alla caricatura. La lista delle parodie è piuttosto lunga. Vuole che cominci?».
Lasci stare. Non salva nessuno?
«Un momento. Salvo gli studiosi competenti, come Luigi Ferrajoli e Carlo Donolo, Guido Crainz e Mariuccia Salvati, e anche giornalisti come Pino Corrias, e ce ne sono tantissimi su piazza. Ma non ci sono più i maestri d’un tempo. Ogni tanto salta fuori il profeta o il “pasolinino”, ma non è all’altezza. Io stesso evito di andare in Tv perché rischio di diventare guru, e la cosa mi immalinconirebbe. Sono partito come maestro elementare e come assistente sociale. E oggi mi salvo perché resto ancorato ai bambini e alle periferie».
Lei è sempre stato un irrequieto, anche nell’ambito delle riviste.
«La veste culturale a un certo punto mi stava stretta, e avevo bisogno di un aggancio nel sociale. Però negli anni Sessanta questo impegno era rappresentato dalla politica. Venivo dall’esperienza con Danilo Dolci, mi ero formato con Calogero e Capitini, e mi ritrovai nella Torino operaia dei Quaderni Rossi».
È vero che la componente operaista la guardava con sospetto?
«No, solo con ironia. I primi tempi ero ancora vegetariano, e questo suscitava grande ilarità. Per colpa loro sono diventato carnivoro. Qualcuno mi ribattezzò il francescano dei Quaderni rossi solo perché indossavo i sandali».
All’epoca fu censurato da Einaudi.
«Sì, non mi pubblicarono il rapporto sulla immigrazione a Torino. Non so se ci sia stata pressione della Fiat, ma forse si trattò solo di autocensura. Il libro servì per una battaglia interna. E definitivo risultò il voto contrario del nazistalinista Delio Cantimori. Mi vide come un eretico pericoloso. E lui di eretici si intendeva magnificamente».
Più o meno negli stessi anni cominciarono a uscire i Quaderni Piacentini.
«Era una rivista totalmente diversa, fatta da intellettuali tradizionali. Nessuno di noi era marxista. Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi ed io venivamo da storie diverse, con attenzione a orizzonti nuovi come la psichiatria di Basaglia. E a tutto quello che si muoveva in quegli anni».
Però anche là lasciò.
«Facevo già un’altra rivistina torinese, Ombre rosse, che sull’onda del Sessantotto divenne un foglio di intervento politico. I Piacentini se ne stavano da parte e criticavano il movimento. Io preferivo starci dentro».
Ma è vero che i leader del movimento erano piuttosto rozzi, solo western e kung fu?
«Sì, andavano pazzi per Bruce Lee. E se costretti ai film impegnati, sbadigliavano come elefanti. È anche comprensibile: dopo dodici ore di militanza non avevano voglia di rompersi il cervello con Angelopulos».
Questo però spiega anche perché il Sessantotto sul piano culturale alto non abbia lasciato grandi opere.
«È vera una cosa: che quella generazione non scrisse, non cantò, non fece poesia. Per dieci anni fece solo politica. Però i vecchi hanno continuato a scrivere. E hanno scritto cose in cui senti il peso del Sessantotto. Lo senti nella Morante. Lo senti in Moravia e in Sciascia. Lo senti in Calvino ».
Sia in Ombre rosse che nel successivo Linea d’Ombra volle circondarsi di un gruppetto di giovani.
«Sì, ricordo Sinibaldi, Lerner, Manconi, Mereghetti. Più tardi Piersanti, Corrias, Lolli. Ah, dimenticavo il non simpatico van Straten: non tutti gli “allievi” vengono bene, anche se mi viene difficile considerarli tali».
Lei è un pedagogo, e ha mantenuto questa veste.
«Ma ci possono essere stili diversi: gli educatori che vogliono seguaci, come Dolci e don Milani. E quelli che spingono le persone a diventare autonome, come Capitini e Panzieri. Io mi sento più vicino a loro. E ho imparato a non scandalizzarmi troppo se uno piglia una strada diversa».
A chi pensa?
«Baricco era un eccellente critico musicale, cominciò a scrivere di musica su Linea d’Ombra. Poi però s’è distratto, seguendo rotte che non mi interessano. Ma se oggi incontro Sandro, lo abbraccio e lo considero un ex compagno di strada».
Su Linea d’Ombra scopriste Rushdie.
«E poi Yehoshua e la Desai, Coetzee e Naipaul, addirittura Mahfuz. Nel decennio più stupido della storia italiana, il mondo cambiava. E noi siamo stati tra i pochi ad accorgercene. Allora Rushdie era straordinario, non il superdivo di oggi che va scrivendo pessimi romanzi sui vip».
Anche da quella rivista se ne andò.
«Alla fine degli anni Ottanta la storia si rimetteva in movimento, ma non tutti in redazione erano disposti a mettersi in gioco. Io mi divertivo di più a fare La terra vista dalla luna, la rubrica di Linea d’Ombra che diventerà rivista. Molto spesso nascono le une dalle altre, frutto di una germinazione interna. Tre anni fa, da Lo Straniero è scaturita Gli asini, una rivista di educazione e di intervento sociale che ritengo molto preziosa».
Ma questa delle riviste è un’ossessione, una malattia, cos’è?
«No, malattia no, perché ne posso fare a meno. È un modo di fare politica per uno che non sa fare politica. Un rifornimento di energia. Nei primi Novanta andavo spesso a Palermo e a Napoli, ero autonomo economicamente anche grazie a una rubrica su Panorama».
Sì, l’editore era Berlusconi e Grazia Cherchi non gradì.
«Moralismi del cavolo».
Proprio lei non lo può dire.
«Da che mondo è mondo, chi non ha potere né beni vende la propria forza lavoro a chi gliela paga. Così replicai a Beniamino Placido che mi accusò di predicare bene e razzolare male. Uscì un mio articolo sull’Unità che fece scalpore: per la prima volta nel titolo compariva la parola “culo”. L’anima e il culo» [qui l’articolo apparso sull’Unità del 23 maggio 1990, ndr].
Ma perché ruppe con Grazia Cherchi?
«Per anni è stata la mia migliore amica. Io arrivavo nella redazione di Linea d’Ombra alle sette. E alle sette un quarto implacabile arrivava la sua telefonata. Un rapporto molto intenso. Però poi anche lei ha creduto troppo nel suo ruolo. Era quella che doveva fare la madrina dei giovani scrittori, e poi ha fatto da madrina a personaggi orrendi. Litigammo sì, ma come si fa tra amici che si vogliono bene».
Nuove riviste all’orizzonte?
«No, per ora c’è solo lo Straniero, che continuo a fare grazie ad Alessandro Leogrande e Anna Branchi. È facile essere stati bravi una volta da giovani. Più difficile continuare a esserlo tutta la vita».