Una delle frasi più demagogiche e populiste usata dai politici al governo è quella che dice “Non mettiamo le mani in tasca agli italiani”, o nella versione più elegante “È l’ora di dare e non di prendere”. Grazie all’associazione Openpolis che ha elaborato i dati dell’Ocse, oggi sappiamo che l’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al 1990 (-2,9%) mentre in tutti gli altri salivano, in alcuni casi anche fortemente. Un record negativo, quello italiota, che la dice lunga sulla capacità delle aziende di creare profitto per gli imprenditori a scapito della giustizia sociale e di una redistribuzione della ricchezza: il patrimonio del 5% più ricco degli italiani – titolare del 41% della ricchezza nazionale netta – è infatti superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero (dati Oxfam), e la forbice si allarga anno dopo anno. Un record negativo che accende un faro sull’incapacità della politica attuale di tutelare le classi povera e media, con spirito costituzionale e leggi adeguate.
Un record negativo che rende infine palese il comportamento assolutamente incomprensibile della maggioranza degli italiani nei confronti della classe dirigente predatoria che da qualche decennio sta asfissiando il Belpaese: gli imprenditori restano dei miti da eguagliare (miti, appunto); i politici continuano ad essere legittimati dal voto in ogni occasione, nonostante si confermino protagonisti della peggiore classe dirigente europea, seppur accompagnata dalla retorica dei “migliori” imposta nel dibattito pubblico dalla stampa dominante. È evidente che se li votiamo siamo corresponsabili delle loro scelte. Cosa aspettiamo allora ad uscire dalla narcosi? Ad alzare la voce, a pretendere rappresentanti nelle istituzioni più capaci di rispondere ai nostri bisogni con una partecipazione attiva al dibattito pubblico e senza rifugiarci sul divano smartphone in mano? Cosa deve succedere per smetterla una volta su tutte di leggere, ascoltare, appassionarci a giornali, trasmissioni, pagine social che remano contro i nostri interessi ma che hanno il merito di saper prendere in giro il prossimo rendendoci così complici dei nostri aguzzini?
La tabella che pubblichiamo in questa pagina parla da sola. Rispetto sia ai paesi dell’Europa settentrionale e occidentale che a quelli dell’ex blocco sovietico, negli stati europei del sud c’è stata una sostanziale stagnazione dei salari, con il record negativo dell’Italia. Nel nostro paese il maggiore aumento (in quanto a entità della retribuzione) si è registrato negli anni tra il 1995 e il 2010, in cui si è progressivamente passati da un salario medio annuale di circa 37mila dollari ad uno di 42mila. Un aumento comunque molto lontano da quello delle altre nazioni europee, se pensiamo che il salario medio irlandese per esempio è passato negli stessi anni da circa 31mila a quasi 50mila dollari. Tra il 2012 e il 2019 poi la variazione è stata minima, mentre tra il 2019 e il 2020 c’è stata una diminuzione piuttosto importante (-5,9%), che ha riportato i salari italiani al di sotto dei livelli del 1990. Se all’inizio degli anni ’90 l’Italia era il settimo stato europeo subito dopo la Germania per salari medi, nel 2020 è infatti scesa al tredicesimo posto, sotto a paesi come Francia, Irlanda, Svezia (che negli anni ’90 avevano salari più bassi) e Spagna.
da Fuori Binario #236 Gennaio 2022