Marco Filoni ha intervistato per il Venerdì Umberto Eco sulle nuove modalità di censura. Ecco il testo.
Una democrazia è tanto più solida quanto maggiore è il volume di informazioni che sopporta. E noi viviamo in una democrazia. Per questo, quando sentiamo parlare di censura, siamo portati a credere che si tratti soltanto di un problema degli altri. Del resto noi vediamo e ascoltiamo tutto. Sappiamo tutto. Siamo informati. Eppure abbiamo qualche difficoltà con un attributo: la trasparenza. Dovrebbe essere la caratteristica di una società che si vuole giusta, equa – in una parola, democratica. Invece scorgiamo sempre più un’opacità di fondo, che attraverso le recenti cronache è entrata nel lessico quotidiano. Se vi sia un qualche rapporto fra questa opacità e una forma mutevole di censura, l’abbiamo chiesto a Umberto Eco. Per capire se la censura ha a che fare soltanto con i regimi autoritari, là dove si oscurano siti e blog, si reprimono le libertà fondamentali, o se invece è un dispositivo che ancora oggi sorveglia anche noi.
Professore, cosa vuol dire censura?
“In senso generale, critica, rimprovero (e non è il senso che ci interessa qui). In senso ristretto è l’azione di una autorità (Chiesa, Stato, partito al potere) che decide quali notizie o pubblicazioni vadano eliminate affinché non giungano a conoscenza della comunità. In questo senso le forme di censura sono state molteplici: dall’eliminazione di libri pericolosi (dall’indice sino al rogo) all’ordine ai giornali di non trasmettere alcune notizie, alla damnatio memoriae, che è una forma di censura talora spontanea e inavvertita, per cui di qualcuno o di qualche opera non si fa più cenno, da nessuna parte, in modo che quella cosa (nome, opera, impresa) venga per così dire rimossa dalla coscienza collettiva. Di quest’ultima forma di censura fanno parte le disposizioni della dittatura stalinista per cui, nelle foto storiche, venivano eliminate le figure di persone che nel frattempo erano state eliminate davvero, e tante veline del Minculpop (il Ministero della Cultura popolare fascista) che proibivano, per esempio, di mostrare Mussolini in pose poco convenienti, o al contrario imponevano di insistere su alcune immagini positive. Per cui ci possono essere anche forme di censura attiva, che di solito chiamiamo propaganda, e cioè insistenza su alcuni temi positivi, che sono forme di censura vera e propria perché, imponendo l’insistenza sugli elementi positivi, si tende a far passare in secondo piano le informazioni considerate negative”.
La censura ha a che fare con l’idea di verità? O si può censurare il falso ed esiste una forma “giusta”, legittima, di censura?
“Badiamo bene, una cultura (come sistema di credenze, saperi, norme, abitudini, costumi) ha sempre una duplice funzione: conservare il sapere tradizionale e trasmetterlo alle generazioni successive, ma anche eliminare informazioni che sono state giudicate false o inutili. Cioè una cultura conserva e filtra, come la nostra memoria. Guai a noi se ricordassimo tutto: saremmo come quel personaggio di Borges che ricordava ogni foglia che aveva visto, ogni parola che aveva udito nel corso della sua vita, e perciò era praticamente un idiota. La nostra memoria censura, come sanno gli psicanalisti, talora si sbaglia e bisogna andare a ricuperare ciò che ha appunto censurato, ma di solito lo fa per liberarci da un sovraccarico di ricordi. Così fa una cultura, e se non cancella pone, come si suol dire, in latenza. Per esempio, non è necessario che, per capire cosa è stato il Risorgimento, ci ricordiamo uno per uno il nome dei Mille, guai se così fosse. Però questo sapere è posto in latenza, ci sono luoghi specializzati dove gli studiosi, se lo ritengono necessario, ma solo in certi casi, possono andare a ricuperare quei dati. Ma ci sono altri dati che sono andati persi per sempre. Per esempio, se leggiamo la Poetica di Aristotele vediamo che lui cita moltissime tragedie di cui non sappiamo più nulla. La cultura, e la storia, hanno deciso di conservare Eschilo, Sofocle ed Euripide e di eliminare tutti gli altri. Perché? Erano meno bravi dei tre rimasti e gli ateniesi li hanno dimenticati? O i tre superstiti erano dei raccomandati che riuscivano a farsi sempre rappresentare e citare, così da eliminare il ricordo degli altri (che erano magari di gran lunga migliori)? Non lo sapremo mai, ma così funziona quella che chiameremo la censura spontanea delle culture. È in base a queste censure che nelle scuole non si insegna più l’astronomia tolemaica e nelle facoltà di medicina non si insegna più la teoria degli umori né il modo di guarire l’ottanta per cento dei mali con il salasso”.
Invece i regimi totalitari hanno sempre usato la censura affinché l’informazione diventasse il “cane da compagnia” del potere. Questa non è censura culturale…
“C’è un modo di distinguere le censure che chiameremo culturali da quelle politiche. Le censure culturali avvengono lentamente, a poco a poco, per consenso generale, e di solito gli errori vengono definiti tali senza essere cancellati (noi possiamo benissimo ritrovare testi dove si dice che il Sole gira intorno alla Terra), mentre le censure politiche agiscono per così dire chirurgicamente, tendono a eliminare un ricordo, a fare in modo che non possa mai più riemergere. Per la censura politica non ci sono magazzini di latenza, vale a dire: non è come i nomi dei Mille, che sappiamo sempre dove andarli a ritrovare. Quando Stalin fa eliminare dai libri di storia ogni riferimento a Trotskij, il suo fine è che il nome del nemico scompaia per sempre e nessuno possa più farvi riferimento”.
Quindi esiste una censura esplicita, manifesta, magari anche costante, che può legittimarsi attraverso le istituzioni. Ma è la sola censura esistente? Oppure ve n’è anche un’altra, più discreta e insidiosa, che può manifestarsi in ognuno di noi senza esser riconosciuta?
“Sono convinto che nell’epoca delle comunicazioni di massa, dove anche le vecchie forme di dittatura si trasformano in populismo mediatico, la censura tradizionale diventi sempre più inefficace. Qualcuno ha detto che se ci fosse stata internet l’Olocausto non sarebbe stato possibile. Credo si possa dire che in ogni caso nessuno avrebbe potuto dire, come è stato fatto, “io non lo sapevo”. Con internet la realtà dei campi di sterminio sarebbe venuta fuori e nessuna censura avrebbe potuto occultarla. Così è oggi. Anche i decreti attuali sulle intercettazioni potranno certo impedire che certi criminali siano legalmente intercettati (il che è già abbastanza preoccupante), ma una volta che siano stati intercettati, non ci saranno leggi e sanzioni che potranno arrestare la circolazione dell’informazione, magari nelle forme più inopinate. In realtà anche in dittature come quella fascista la censura impediva solo che alcune notizie fossero date pubblicamente, ma non impediva che esse circolassero in modo clandestino – e sovente la notizia sussurrata aveva un impatto maggiore della notizia resa pubblica. Allora il sussurro prendeva la forma della mormorazione bocca-orecchio, oggi prenderà quella della mormorazione-blog. La legge bavaglio restituirà dignità a una forma elettronica di tam-tam. Invece, nell’universo dei media, funziona non la censura per difetto ma la censura per eccesso d’informazione. L’esempio più evidente è il Tg1. Non è tanto che non dia notizie fondamentali, forse certe volte non le dà, altre volte le dà in modo rapido e senza enfasi. Ma soprattutto dà un’enorme quantità di notizie inutili o irrilevanti: lo scippo, la nascita del bambino con due teste, e via dicendo. L’utente è sommerso da notizie di scarso rilievo, anche se di qualche sapore cronachistico, ed è portato a ignorare i fatti rilevanti (che so, crisi economica, diminuzione stipendi e così via). In fondo, a pensarci bene, l’intera macchina televisiva, coi suoi grandi fratelli, le isole dei famosi, le pupe e i secchioni, le sfilate di belle fanciulle, i dibattiti politici dove non conta quel che viene detto ma la vis polemica dei partecipanti, la loro capacità di interrompere l’avversario, altro non è che un immenso apparato per censurare notizie importanti che pure vengono date, ma nella disattenzione generale. La vera censura è data dalla disattenzione generalizzata, dall’eccesso di cicaleccio in cui annegano le notizie rilevanti. Aggiungiamo le notizie prodotte apposta. Voglio dire che, se io fossi un uomo di potere e sapessi che domani appariranno sui giornali notizie di qualche mia azione delittuosa, nel corso della notte farei mettere una bomba alla stazione. Sarei sicuro che il giorno dopo le prime (e le seconde) pagine dei giornali sarebbero occupate da quella notizia e l’altra (quella che mi riguarda) passerebbe inosservata. Certe volte dico che per sapere chi ha commesso il tale o tal altro attentato occorre andare a vedere i giornali di quei giorni e controllare quale notizia importante è scivolata nelle pagine interne”.
In passato alcuni grandi pensatori hanno avanzato l’idea della teoria della dissimulazione: ovvero personaggi storici che mettevano in pratica una sorta di autocensura per non compromettersi e per dissimulare il loro vero pensiero. Oggi pensa che si possa usare questo tipo di interpretazione?
“La dissimulazione onesta di cui parlava Torquato Accetto non consisteva nel mostrare quello che non si è (il che è alla portata di qualsiasi cialtrone, e che chiamerei simulazione disonesta) ma nel non mostrare quello che si è, per non suscitare le invidie altrui. Si è sempre praticata, almeno da parte dei saggi. Ma quello che fa scandalo, specie oggi, non è la dissimulazione onesta bensì il suo contrario, la simulazione disonesta”.
La parola scritta è stata per secoli la vittima designata della censura. Qualcuno dice che con la civiltà dell’immagine non si può più censurare perché le cose si vedono così come sono.
“Intanto, anche la cancellazione di Trotskij o le foglie di fico messe ai nudi di Michelangelo erano forme di censura visiva. Ma il problema è che non c’è niente che si presti di più alla menzogna delle immagini. Vi ricordate il famoso uccello coperto di petrolio che veniva mostrato da tutte le televisioni come documento della prima guerra del Golfo? Poi si è scoperto che era un’immagine di repertorio, che risaliva ad anni prima e documentava un’altra vicenda. E così era di tutti quegli aerei che si levavano in volo mentre la voce fuori campo dava notizie sulla guerra: non si riferivano a ciò che stava realmente avvenendo, tanto che Baudrillard potè dire paradossalmente che la guerra del Golfo non aveva avuto luogo. Un eccesso di immagini può servire benissimo a celare ciò che di fatto accade. Per questo ormai gli eserciti ammettono solo giornalisti embedded, la cui documentazione dipende solo da quanto danno loro gli alti comandi. Questa è censura. Censura militare, che c’è sempre stata, salvo che un tempo si sapeva che c’era e che quindi non si poteva sapere niente di quanto accadeva al fronte. Ora invece si ha l’impressione di sapere tutto, ed è invece una pia menzogna”.